domenica 18 luglio 2010

Il poema "MALDILUNA" DI GEZIM HAJDARI... avete mai letto qualcosa di altrettanto tremendamente bello?

Gëzim Hajdari

"MALDILUNA"

"Io, Gëzim Hajdari
(creazione di tremule ombre notturne,
errante maledetto delle sacre dimore),
confesso davanti agli dei,
ai templi e all’oblìo.
Confesso davanti ai campi abbandonati della patria
e ai fuochi dell’Inferno:
sono maschera della mia maschera,
e ciò che ho scritto sono fandonie,
non sono stato io
ma un indegno delirante,
chiuso in una stanza sgombra.
Giuro e scomunico i miei versi maledetti
ovunque siano
e chiedo perdono ai pazienti lettori
per averli ingannati
con il mio fango.

Che possano cadere tutti i fulmini del cielo
e l’ira dei demoni su di te,
Cerbero possa giudicare la tua anima tenebrosa
tra le fiamme impietose.
Hai perso la nostra fiducia
nelle paludi invernali vagherà la tua ombra orfana
come uno spirito maligno,
che tu non possa trovare mai pace sulla terra degli uomini!
Piogge cadranno, nevi e melma dall’alto,
soffieranno venti gelidi sulla tua Parola,
fiumi neri cancelleranno il tuo nome.
Con polvere e pietre copriremo le tue orme passo per passo
e con l’oblio sarai condannato
dalla tua stirpe!

O stagioni finte con fiori di ginestre e profumo di viole
nei cespugli in primavera
dove il passero gioioso insegue il cuculo,
rosa canina,
petali di papaveri
caduti nella terra del crimine,
sentieri con fischi di vipere.
O anni persi nei ruderi di merli e civette,
labirinti oscuri e tremendi dove ho errato
come un monaco mesto
per tutto questo tempo,
in nome di un Padre che non si è fatto mai uomo.
O bei giorni consumati invano
(in una patria castrata)
lanciando sassi controvento
e scrivendo con la punta del coltello sulla mia carne
canti d’amore e di pena.
O vortici di sogni incantevoli
che continuate ad uccidere poeti ingrati
senza una guerra, né una goccia di sangue.
Io, ombra della mia ombra,
condannato all’esilio per un altro esilio
bestemmio il mondo
e sputo in faccia al Dio ipocrita e crudele,
ho amato solo il mio terrore e non il canto dell’uomo.

Ma tu, mia vecchiarella,
continui a volermi bene come sempre,
nomina il mio nome come facevi ogni sera
nella piccola e umida casetta di campagna
e non dar retta a quel che scrivo.
Sgomento è il mio cervello,
avvelenati i miei pensieri,
e se in un’alba m’impiccassi,
sarà per una vergine puttana
per un poeta la vita conta poco,
è la morte che vale.
Ho deciso di svendere questa vita
in cambio di uno squallido poema,
ma tu, grazia il tuo figlio prediletto
che amava gli alberi
stretti l’uno all’altro.
Ritornerà il mio nome
e busserà ad ogni crepuscolo alla tua porta
come un uccello che cerca di ripararsi dalla pioggia,
come un fragile amante pentito.

Sia castigato il tuo verbo maledetto in tutto il regno dei vivi
e che sia impedito al tuo seme di fiele di attecchire
nella terra di Adamo,
pèntiti del peccato orribile
e che Dio misericordioso ti assolva!

Sono vissuto sempre in mezzo ai miei simili
solitario ed estraneo ad essi,
affascinato dalla mia follia
e dagli occhi teneri degli uccelli,
celebrando le mie ceneri oscure e chiare
sotto la luce di una luna spaventata,
testimone di atroci delitti.
Come un assassino in fuga,
attraversando regioni di neve,
rivendicavo a piena voce nel silenzio cieco e macabro
il mio potere .
Ridi tu, valle,
e nascondi il mio panico,
sorgi tu, collina
e copri il mio terrore,
germoglia tu, stagione funebre
e distruggi i miei sogni veggenti.
Con il pettirosso del cortile
che m’insegue nel bagliore del ghiaccio
divido il tormento
in questo autunno pallido.
Nessuno crede alla mia gioia,
i giorni per me sono cieli chiusi di pietre
e le notti paradisi di orge.
I primi che ho conosciuto nell’infanzia
furono i falchi nella mia collina,
si nutrivano delle allodole dei prati
ed io mi beavo ai pianti delle vittime,
mettevo in testa corone di ginestre
e passavo davanti alla battaglia dei predatori
come un re vincitore.
Chi non applaudiva con me era un vigliacco,
questo sono io,
ho adorato i volti sorridenti dei tiranni
ed ho odiato prima di amare.
Avanzate miei amori crudeli
mordete la mia carne innocente
lapidate con pietre i miei occhi castani
incendiate la mia angoscia,
finchè vengano placati i miei gemiti
e sia fatta la vostra volontà malvagia.
Che aspettate,
inchiodatemi con le mie Parole
fino al sangue
flagellatemi il corpo con i miei versi,
impiccate il mio cuore rosso
ai rami
prima che io corvo dei corvi
entri nelle vostre vene
a bere del vostro sangue impuro,
per risorgere mostro.

Oh, cose inaudite e blasfeme ascoltiamo
in questa notte di stelle gelide,
mentre canta il primo gallo rivolto ad Oriente:
morirai lontano dalla tua terra oscura,
distrutto dal dolore dell’esilio immenso,
spine mortali cresceranno dalle tue ceneri.

Sono uno straniero di passaggio,
nulla rimpiango del tuo regno di perdizione,
un altro destino rivendico.
Conosco i segreti della vita infedele
come l’arma il proprio delitto,
non c’è veleno che calmi la mia pazzia
donatami dal Padre
prima che diventassi
figlio di cannibali
nel deserto promesso.
Accoltellato dai fedeli
in una notte fonda
di comunione
e tradimento,
mostro alla gente la mia ferita che sanguina:
desiderio del mistero voluto.

Dal giorno che ho perso Atlantide,
erro senza meta nelle strade e nei campi
con la mia ossessione nelle mani
e maldiluna,
incendiando
alfabeti,
eros,
addii.
Oblìo del Tempo, salvami.
So quel che faccio mio Dio
e non chiedo grazia a nessuno,
io contadino di capre,
abitante di ex cooperative agricole di buio e tuoni,
che un tempo correva dietro alle stagioni e alle ombre,
non obbedisco al Tuo Disordine,
ben venga il rogo
e questi versi come castigo dell’Eterno.

(da Poesie scelte, 1990 – 2007, Edizioni Controluce, 2008)

venerdì 9 luglio 2010

ISOLA TIBERINA - ISOLA DEL CINEMA - ISOLA DEI POETI!!!

“ISOLA DEI POETI 2010”-“DIVI E DIVINE”
A CURA DI ROBERTO PIPERNO E FRANCESCA FARINA

"ISOLA DEL CINEMA" – ISOLA TIBERINA – ROMA

LUNGOTEVERE DEI PIERLEONI
(PUNTA DELL’ISOLA TIBERINA
VERSO PONTE GARIBALDI)

GIOVEDÌ 15 LUGLIO 2010, ORE 19,00

READING DEI POETI
ANTONIO AMENDOLA*, CLORIS BROSCA*, ALBERTO GIANQUINTO*, EMANUELE SGRILLETTI*,
FRANCESCO DALESSANDRO, ALIDA CASTAGNA,
DOMENICO SACCO, PAOLO BORZI,
LEONARDO DUCCIO MORTERA, TATIANA CIOBANU

SERVIZIO FOTOGRAFICO DI PAOLO QUARANTA

*POETI DEL FESTIVAL “MEDITERRANEA 2010”,
A CURA DI FILIPPO BETTINI PER LA RASSEGNA “ROMA PATRIA COMUNE”

rosafrancefarina@fastwebnet.it
SIETE TUTTI INVITATI!!!

lunedì 5 luglio 2010

"IPERFETAZIONI" DI MARCO PALLADINI (EDITRICE ZONA, 2009)

“Iperfetazioni”di Marco Palladini, Editrice Zona, 2009.


Nella cifra dell’ironia, spinta sovente verso l’abisso sdrucciolevole del sarcasmo (dal quale recedere è impresa ardua, almeno in retorica e in poesia) e nella struttura ampia, distesa, della prosa poetica (ovvero della poesia narrativa: poesie che sono quasi piccole prolusioni o apologie, o al contrario invettive, vere e proprie catilinarie amare), questi testi di Palladini delle “Iperfetazioni”, come a intendere subappalti di definizioni, costruzioni di costruzioni di parole, un LEGO di sintagmi, un puzzle di metafore e allegorie, in soliloquio doloroso e drammatico, dalla cui disperazione l’autore si scansa per eccesso di pudore, per evitare di mettere in scena i propri sentimenti più profondi - come nella tragedia greca si evita di mostrare in scena il cadavere dell’eroe, per evitare l’eccesso di commozione – salvandosi con lo scatto della battuta feroce, talvolta respingendo con un colpo di distico a rima baciata lo sprofondare nella palude dell’auto-commiserazione o dell’auto-compiacimento masochistico, di fronte a sconfitte, umiliazioni, delusioni della storia, piccola e personale, o della Storia, quella che finisce sui libri di scuola.
Disillusione privata e pubblica, dunque, declinata in allitterazioni, bisticci e/o giochi di parole, metri distesi, esasperati e cantanti, o dissonanti volutamente in figure retoriche ricche e voluttuose, dove le immagini audacemente accostate producono, come nello sfregamento di metalli diversi, da cui si levano stridendo rossastre faville, sciami di parole, spasmodicamente reiterate, quasi a ribadire idee e ideologie altrimenti incomprese o incomprensibili.
Nelle “Ricognizioni private”, la prima delle tre sezioni in cui si articola il volume, preceduto da una sovrabbondanza di citazioni, che vanno da Gadamer, a Genette, ai CCCP, da Manganelli, a Brecht, a Dante (“Ahi serva Italia…”, altissima invettiva, mai tanto adatta come a questi nostri tristissimi tempi) - tutti “padri”, presumiamo, dell’autore, in cui si è riconosciuto e si riconosce ancora, probabilmente – il poeta sembra voler dire tutto di sé, di sé poeta e della Poesia, sfatandone però ogni luogo comune, denudandone i più vieti paludamenti, denunciandone i più laidi vizi, irridendo acerbamente (una piega di “pietas” gli deforma sempre le labbra, strette a pronunciare il proprio profetico verbo) come COLUI-CHE-SA, poiché ha vissuto ogni aspetto della vita, ne conosce ogni risvolto, ne ha percorso i sentieri più malagevoli, è caduto mille volte e mille volte si è rialzato ed ora addita a chi verrà dopo di lui le difficoltà di cui è lastricata la strada. Volgendosi però indietro, il poeta sembra aver orrore di nostalgici ripensamenti e le sue “furibonde invettive” si rivelano come la vera forza della sua personale poetica.
La delusione della Storia si fa alta poesia, denuncia senza cedimenti al patetico, dignitosa apostrofe al mondo, declamata con un lessico “novissimo” (è agevole rintracciarvi i poeti degli anni Sessanta del Novecento), straordinariamente “moderno” o meglio “contemporaneo”, mentre il sarcasmo diviene ancora più audace nella seconda sezione, “Interzone”, dove la spinta allusiva della parola si fa dirompente, sfiorando il comico della grande tradizione (non si stenta a rivedervi Rabelais o il Folengo), nell’accumulo di materiali extra-vaganti, nelle zeppe, negli scarti o scambi di lettere e/o parole, nella coazione a ripetere, nell’accostamento o rovesciamento dei sinonimi o omonimi, che fanno scaturire la voglia di sottrarre, aggiungere e/o correggere il detto, col sorriso o il riso sempre in agguato, quando non manca il verso escrementizio: là ci si diverte a leggere, come da bambini a dire le parolacce, a nominare l’innominabile, a usare il “K” come negli anni Settanta (buono per Kissinger, ma anche per il nostro Kossiga), a riesumare vecchi gruppi musicali coprolalici, a rievocare vecchi sintagmi neo-romantici, nel perenne spaesamento o straniamento provocato dall’inusitato accostamento di mode e modi di diverso e recente/lontanissimo tempo, cedendo talvolta all’inserto di sintagmi in lingua straniera o termini di nuovo conio.
Quando ci pare di dover finire, per sovrabbondanza di senso, cosa che ci lascia grati quanto stremati dall’arricchimento incredibile di immagini e di sensi, comincia l’ultima straziante sezione, “Pubbliche incursioni”, in cui lo sguardo dolente del poeta si sofferma a denunciare l’orrore della Storia più vicina a noi, dove la presenza delle bombe è più concreta e vera dell’assenza di Dio, ogni cosa e creatura sono mercificate e fornite di logo (pur nelle dichiarazioni del NO LOGO), mentre invano il poeta continua a mascherare di ironia l’immenso dolore che lo travolge di fronte ai travolgimenti della Cronaca, in assenza totale di una parola salvifica, se non questa sua, poetica.

(Francesca Farina)