mercoledì 12 novembre 2014

Chi è l’autrice di questo romanzo intitolato “CASA DI MORTI”. Francesca Farina è nata in Sardegna, ha studiato a Siena e risiede dal 1973 a Roma, dove si è laureata in Lettere Moderne con una tesi sul poeta sardo Sebastiano Satta, relatore il professor Giuliano Manacorda, correlatore il professor Walter Pedullà. Nel 1983 si è specializzata in Letteratura Italiana con una tesi sul poeta "novissimo" Antonio Porta, relatore il professor Riccardo Scrivano. Fin da giovanissima ha cominciato a scrivere poesie e diari. I Diari relativi agli anni 1977/78 sono risultati finalisti nel 1998 al "Premio Pieve-Banca Toscana", ideato e presieduto da Saverio Tutino. Sempre nel 1998 ha curato la pubblicazione di “Framas” (“Fiamme”, in sardo) che raccoglie poesie del fratello, della madre e un suo racconto. I Diari relativi agli anni 1986/87 sono stati premiati con la Menzione Speciale allo stesso Premio Pieve nell’anno 2007. Nel 2000, i sonetti "Sulle ali dell'angelo" sono stati segnalati per la sezione inediti al "Premio Internazionale Eugenio Montale", organizzato e presieduto da Maria Luisa Spaziani. Sempre nel 2000, la silloge poetica “Nature morte” ha ottenuto il secondo premio ex-aequo al concorso "Nuove scrittrici", organizzato dalla rivista «Tracce» di Pescara, diretta da Nicoletta Di Gregorio. Francesca Farina collabora dal 1986, in qualità di critico letterario, alla rivista accademica «Esperienze letterarie», diretta dal professor Marco Santoro dell'Università “La Sapienza” di Roma. Diversi suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in riviste specializzate, ovvero premiati o segnalati in concorsi letterari. Un'antologia di sonetti, che ormai ammontano a circa cinquecento, intitolata “Tragoedìa”, è stata pubblicata nel 2008 dalla Casa Editrice Zona (www.editricezona.it), mentre è pronto un romanzo inedito dal titolo “L'isola dei morti”. Ha scritto, inoltre, tre sceneggiature, una basata sulla “Vita di Vittorio Alfieri scritta da sé medesimo”, una ambientata nella Sardegna dei primi anni Sessanta e intitolata “Tamarikes de preta” (“Tamerici di pietra”) e una tratta dal romanzo “Il giorno del Giudizio” di Salvatore Satta. Un altro suo libro di poesie è “Metamorphòseon”, ossia “Delle trasformazioni”, pubblicato dalle Edizioni Associate di Giorgio Cortellessa nel 2008. Nel corso degli ultimi anni ha partecipato a molteplici manifestazioni poetiche e organizzato numerosi eventi culturali, come la “Maratona dei Poeti”, con letture poetiche a cadenza mensile e la partecipazione di circa trenta poeti; il “Leopardi’s Day”, a cadenza annuale, con letture poetiche in occasione dell’anniversario della nascita di Giacomo Leopardi e L’Isola dei Poeti, che si tiene dal 2008 all’Isola Tiberina, a Roma, e nell’ambito della quale quest’anno si è svolto anche il Premio di Poesia “Insula Romae”. Attualmente, cura la redazione di un suo blog personale, www.poeticontemporanei.blogspot.com e sta preparando tre nuovi libri di poesie per tre diversi editori. Questo è il suo primo romanzo, di cui pubblica qui il capitolo undicesimo. Francesca Farina può essere contattata tramite l’e-mail rosafrancesca.farina@fastwebnet.it Che cos’è “Casa di morti”. “Casa di morti” è un romanzo mito-biografico, perché si tratta di una biografia, più che romanzata, mitizzata, dell’autrice, la quale riassume in sé un’antichissima schiatta, austera, dignitosa, profondamente fiera dei propri valori, tra i quali spicca primario quello della cultura. La lotta secolare per emanciparsi è passata proprio attraverso la scuola, lo studio, la lettura e la scrittura, valori ai quali la famiglia dell’autrice e la stessa hanno sempre creduto e che hanno a lungo perseguito, fino a pervenire al momento attuale, forse il momento migliore dell’intera loro storia, nonostante la decadenza del mondo, che assiste al proprio sfacelo senza pressoché alcuna reazione. La denuncia del crollo della società e della Storia del Villaggio è il vero cuore del romanzo, che ripercorre, come esemplare della storia di tante altre famiglie, la storia della propria, con l’intento di salvare dall’oblio la vita degli ultimi, coloro che non hanno storia e non hanno parola, che si dibattono nei brevi giorni della loro esistenza e poi si addormentano nel sonno perenne della dimenticanza, quasi non fossero mai venuti al mondo. Il romanzo si compone di due parti: nella prima si rievocano gli ultimi due secoli, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, nella persona e nelle vicende degli antenati più prossimi. Nella seconda, come in una ideale galleria di ritratti, sfilano i personaggi che hanno compiuto la loro meravigliosa e generosa opera di donazione di sé, per permettere alla stirpe di perpetuarsi, affidando all’estrema Discendente, anche grazie alla memoria orale degli antichi cantori della famiglia, il compito di narrarne le vicende, attraverso la scrittura. La conclusione è inconclusa, come la stessa vita, che prosegue oltre l’umana esistenza, senza fine… “CASA DI MORTI” ROMANZO MITO-BIOGRAFICO DI FRANCESCA FARINA Capitolo undicesimo Casa materna. Antenati quasi fiabeschi: Usignola “Mani d’oro” si unisce al Cavaliere della Valle Solitaria. Follia e morte delle donne della casa materna. Il mattino d’un Villaggio d’altri tempi. Lhaus, il Villaggio da cui era mossa la Bisnonna materna, che se ne venne a piedi a Bithia con un fratellino a servire “per il ventre”, “per il solo mangiare”, era costituito da poche casupole, fermate sulla costa di un monte, attraversate da un sentiero sterrato e perverso, con una pietraia tutto intorno: simile a una pietraia sempre era apparso nell’immaginario della famiglia il povero, spregiato luogo di dove giunsero quei primi, lontani ascendenti della Madre, quella ragazzina magra con gli occhi che le mangiavano la faccia, le labbra appena una fessura, come scomparse a causa della fame, le guance asciugate dalla miseria, e quel bambino, che lei si tirava dietro, debilitato dallo scarso cibo e dalle lunghe, precoci fatiche, recalcitrante per la stanchezza e l’umiliazione, presto domato dalla lunghezza del viaggio. La straordinaria forza vitale che la sorreggeva, la gioia profonda di esistere, nonostante l’insensatezza stessa di quella, nelle tristi circostanze in cui era venuta a trovarsi, l’orfanezza, la grazia del suo sorriso sempre aleggiante sulle gote a formare un lievissimo arco, a restringere le pupille colme di luce, determinarono il suo destino, insieme alla potente melodia della sua voce di poetessa orale: “Mariedda servitora de signora Preziosa chin sa oche armoniosa paret Minerva Prandora!” così le cantò un anonimo poeta del Villaggio, paragonando la Marietta dalla voce armoniosa a Minerva “Pandora”, dai molti doni. Si mise dunque ai comandi di quella riottosa dama, signora Preziosa, la quale in perpetuo ozio trascorreva i giorni quasi esclusivamente a letto, adagiata e come sommersa da cuscini ornati di trine e lenzuola ricamate, morbide coperte e serici copriletti, essendo figlia ed erede di ricchi proprietari di molti “salti” e pascoli e “tanche” e greggi e armenti, dei quali nulla conosceva se non le pingui prebende che ne traeva e grazie alle quali era sprofondata lentamente in una quasi morbosa e pestifera indolenza: in realtà, alla sua pigrizia inaudita era dovuto il nome, o piuttosto il soprannome, che portava e col quale è passata alla leggenda. Dalle coltri tra cui stava perennemente adagiata, Signora Preziosa sorvegliava stancamente l’andamento della casa, come disgustata da ogni più piccola incombenza, e per un nonnulla chiamava quella servetta svelta, allegra, che in un lampo, volgendo le trecce, nere come ali di corvo, occhi e gambe di cerbiatta, si precipitava in cucina, in cantina, nella strada, chiamava un servo, rincorreva un fattore, portava l’acqua, preparava la tavola, tagliava la legna, accendeva il fuoco, stirava i panni, quindi, torcendosi le mani nel grembiale, tornava dalla padrona a riferire che tutto era a posto, che ogni cosa era fatta, che la tale persona era venuta, che la talaltra commissione era assolta, e a domandare affannata e sorridente che cos’ altro la signora comandasse. Nei mattini caldissimi di luglio, durante i quali ribollivano le strade e le piazze del borgo, deserte sotto il più frenetico sole, la signora faceva colare l’oro del tempo quasi inerte, sfibrata dalla calura, nelle stanze dalle imposte accostate a schermare le unghiate della luce. Nell’ora che saliva, passavano i venditori di ramazze di saggina, di recipienti di rame, dei quali si ornavano come fanti primordiali cinti da armi preistoriche, le lance innestate, i giganteschi elmi scintillanti di rossi riflessi. Quei poveri viandanti avevano fatto un lungo viaggio, partendo nel cuore della notte dai loro villaggi della costa o della montagna, per essere al paese alle prime luci dell’alba e spesso ne ritornavano senza aver spacciato nulla o quasi, timidi e impauriti, tristi e come schiacciati da un peso che non era soltanto quello delle loro arcaiche suppellettili. Tuttavia cantavano meravigliosamente con voce nasale e cuore sperso: “A chie cheret “A chi vuole laviolosos recipienti ei saltaineeeeeeees!” e padelleeeeeee!” Allora, ascoltando quelle voci cantilenanti che provenivano dal fondo assolato e deserto delle vie, la padrona si assopiva, sognando. Più melanconici e cupi i giorni d’inverno. Nella buia cucina, abbandonato in un canto, sopra una stuoia, aspettando anch’egli qualche ordine o schivando le ingiurie di un vecchio servo irascibile, quel fratellino, che ella si era trascinato dietro dal suo barbaro villaggio montano, lasciato all’oblio di uomini e di dei, il quale dormiva per terra, con sempre i soliti panni addosso, nutrito scarsamente col cibo che la sorella strappava per lui alla mensa dei padroni, latte e ricotta e pane e lardo, e qualche volta anche salsicce e cacio, e perfino, le domeniche, i maccheroncini cavati dal ferretto, conditi con il formaggio e le noci, o anche col sugo di pecora, e nei giorni grandi dell’immolazione del maiale, come per la festa della tosatura o per il sacrificio degli agnelli, la carne a fette, il vino nuovo o d’annata, il “pane lentu”, quelle morbide e rotonde forme di pane non biscotto che si mangiavano in giornata perché altrimenti divenivano dure e meno fragranti; i dolci. Lo cresceva, orfano come lei, scomparsi nella cenere del tempo i genitori, così poveri e ignoti da non serbarne neppure il nome, adattandogli talvolta qualche vecchio vestito smesso, in cui la sorella profondeva la straordinaria abilità e grazia posseduta nell’uso dell’ago. La chiamavano Usignola, la chiamavano “Mani d’oro”, e per il canto dolcissimo, la voce acuta dai toni alti e limpidi, smaglianti come il cristallo più puro; e per quelle dita sottili e lunghe che intrecciavano fili su fili, dirimendo antiche questioni tra l’orlo e la stoffa, districando asole e bottoni, sfrondando gugliate e tagliando nodi; le piccole unghie, simili a mandorle fresche, scintillavano alla luce delle braci, quando, calata la sera e ricoverati uomini e animali sotto ogni tetto o stalla, nel silenzio incantato e freddo che oscillava sul paese, ella cuciva; dormiva un poco, la testa sul braccio, sfinita dalle fatiche della giornata, poi riprendeva il lavoro e al mattino la sua sdegnosa padrona osservava tacita i ricami, i punti nascosti, i rammendi invisibili e stupiva che una simile meraviglia albergasse in casa sua; se la teneva perciò cara e nascosta, gelosa che uscisse anche soltanto per andare alla fontana - poteva sempre incontrare un ammiratore che gliela sottraesse, Dio guardi! - chiamandola di continuo: voleva che ricamasse o lavorasse all’uncinetto presso il letto, non doveva muoversi che ... guai! Succedeva il finimondo, erano urli e strepiti a non finire, e Marietta correva, serena e disperata di tanta sollecitudine e tanta schiavitù. Cantava, cucendo, e il canto si spandeva per le strade selciate, per quei torrenti di pietra, per i sentieri simili a cunicoli del Borgo a lei straniero - la chiamarono infatti sempre Marietta di Lhaus e null’altro - e ciascuno riconosceva quel canto, sorridendo per la tenerezza che suscitava, per i ricordi e le nostalgie che accendeva. Quella voce, come anche la delicatezza nel cucire, sarebbero passate - retaggio ineguagliabile e possesso perenne - dal suo sangue al sangue delle sue discendenti più lontane, quando esse non erano ancora nella mente e nei sogni della fanciulla, non ancora lei aveva visto sorgere in lontananza, insellato come un cavaliere antico, altero e sprezzante come un eroe mitologico, l’uomo che l’avrebbe condotta sposa e avrebbe diviso con lei un benessere neppure immaginato, quando presso il focolare acceso consumava gli occhi, ma non il cuore, a tessere la sua tela di vita. Quell’uomo, che se ne stava allora sprofondato nel cuore di una valle solitaria, immerso nella cura del gregge, tornando in paese qualche rara volta, quando la necessità impellente lo spingeva a sellare la cavalla, da quella attitudine inveterata a sfuggire il consorzio umano e a preferire piuttosto lo spaventoso, intricato bosco che costituiva la sua proprietà fiorente, amata e prediletta quanto la più venusta e sacra delle magioni; quell’uomo, dunque, aveva avuto per sempre mutato il nome: Thur era in realtà l’arcaico patronimico, di cui sino alla fanciullezza si era fregiato, finché non prevalse il soprannome, che nel chiuso Borgo a nessuno era negato, e quel soprannome fu “Della Valle” o “Vallino”, come giovanilmente celiando sulla piccolezza ed esiguità della di lui persona lo appellavano i compagni. La natura allora, in quei siti inaccessibili e spopolati, proliferava gaudiosa e trionfante ancora come quando era apparsa ai primordiali abitatori venuti dal ponte di arcipelaghi che collegavano l’Isola alla terraferma: millenari lecci, olivastri e querce ricoprivano ogni plaga, dove si aggirava innumerevole una fauna rigogliosa di pernici, lepri, volpi e cinghiali e mille altre specie gloriose; i cinghiali si mescolavano alle scrofe e ne nascevano maialini striati, dalle bande bianche e nere, selvaggi e bradi quanto i loro padri, minuti e arcigni. Egli si trovò a lottare perfino con quei foschi animali, tanto che una volta dovette difendersi dall’assalto di uno di essi a colpi di roncola, mancino com’era, guardandolo negli occhi, sentendo sulla faccia il fiato ansimante e il rantolo furibondo della bestia, affondando le dita tra le vene aperte del formidabile collo irsuto. La sua giovinezza, e del resto l’intera esistenza, fu per lui segnata da un avvenimento che spezzò i suoi anni in due parti, dato che da quel momento non fu più in grado di scordare quanto gli era accaduto. Verso i vent’anni, mentre in un fiorito giorno di maggio attraversava a cavallo la cupa e desolata valle dell’Annunziata, nei pressi dell’antico santuario tanto caro ai compaesani, fu fermato da due donne, forestiere alla foggia dei vestiti, le quali vollero, per una lira, fargli le carte e leggergli la mano, predicendogli che si sarebbe sposato, che avrebbe avuto quattro figli e che sarebbe morto nel 1930. Se ne rideva, allora, eppure ogni fatto si svolse poi come previsto, quasi fosse stato marchiato a fuoco nel suo sangue. Chissà come fu che vide per la prima volta la fanciulla del suo cuore, quella ragazzina che andava scalza a prendere l’acqua alla sorgente tra gli elci, in mezzo ai cervi, volando sulle pietre della strada come sull’erba bagnata, cantando con la sua voce di passera per vincere la noia e la fatica; entrata per sempre nella sua carne, ella fu scelta e si unì al suo cavaliere, che il giorno delle nozze, vestito del costume delle feste, con la camicia ricamata dalle maniche amplissime sgargiante sul collo e i nerissimi capelli a sfiorare il corpetto, i corti calzoni di orbace - quasi una sottana scampanata sulle cosce, secondo l’uso - le apparve bello e forte come un principe nuragico. Ella si prese cura, dunque, non più della dimora altrui ma della sua stessa casa, simile ad un’ape affaccendata, che fabbrica un continuo miele, rassetta le cellette, mette da parte la cera, nutre i piccoli con il nettare più pregiato, privandosene per darlo a loro, dopo aver fatto bottino di polline sulle corolle più ricche e delicate. Non c’era attività alla quale non si dedicasse con lo stesso amore, la stessa sollecitudine; non c’era festa, al Villaggio, che ella non rammentasse di onorare preparando ogni cosa seconda la tradizione, i cibi più squisiti, le conserve più fragranti, i dolci più pregiati, senza mai scordare il dono naturale del canto e del ricamo, veri tesori in tempi in cui nessun prezioso meccanismo li sostituiva. In breve attorniata dalla prole, le tre figlie e un unico maschio, secondo la profezia fatta allo sposo, per anni fu intenta a instillare, come fa il gabbiano coi suoi nati, il cibo della mente e della mensa nei cuori e nei ventri di quei fanciulli. In loro dunque si mescolarono ansietà e mollezza, vertigine e gioco, odio e prudenza. Poiché , al Villaggio, in quella selva di donne costrette per tutta la vita a un’esistenza quasi da prigioniere, resistevano, tenaci idoli, le donne-virago, le donne-toro, contrapposte alle piccole dee d’acqua, le donne friabili e liquide, molli e lente, flemmatiche in apparenza, ma in realtà bruciate da un fuoco interiore, da un furore frenetico che le accendeva come torce immani e mostruose, divampando improvviso e inarrestabile. Le donne-toro, vere dee nell’arena dell’esistenza, erano costantemente armate, non cedevano mai le lance, le frecce, gli scudi che parevano portare sempre addosso e di cui si servivano non per proteggersi, ma per scagliarsi a tutta forza con grande strepito contro chiunque osasse mettere dei tralci sulla loro strada; scendevano dunque continuamente in campo, corazzate, pronte alla lotta verbale, pure se si comprendeva bene che lo sarebbero state anche allo scontro fisico, per imporre una volontà suggerita dall’istinto di sopravvivenza, la religione dell’esistere, sola religione che esse adorassero. Delle tre figlie, dunque, Juana crebbe simile a una piccola dea d’acqua, un torrente che scroscia sotterraneo, docile e calmo nella stagione estiva, tonante in quella invernale, tuttavia celato a tutti sia nell’empito delle sue frenetiche onde, sia nella flessuosità del suo adagiarsi sinuoso. Ella apprese dalla tenera madre l’estrema abilità dell’ago e, chiusa tra le sue stanze come monaca di casa, sommessamente pia, trascorse la vita intrecciando serti di filo, rubando al ragno la sua maestria, alla colomba i sospiri, agli angeli i sogni da tessere sulle sue tovaglie di chiesa, delle quali, dopo immane fatica, faceva dono ai prelati e che ancora, ai tempi recenti, ornano i sontuosi altari delle basiliche del borgo, a giovamento delle Anime Purganti. Ammantata di silenzio come da un velo incessante, armata soltanto del ditale e del suo arnese acuminato e lucente, traeva dalla punta e dalla cruna ogni sentiero fantastico, ogni fiore paradisiaco, oro e perle, il violetto della passione e il rosso della crocifissione, la corona di spine e la ferita sul costato, il vino e il pane consacrati, i pampini festosi, i tralci sfarzosi, primavere celesti ed estati trionfanti. Ogni cosa dovette presto infrangersi contro lo scoglio ardente della febbre che devastò i suoi polmoni, ridusse a cenere e sangue i suoi bronchi, trascinandola verso un inferno di orrori, gli ultimi mesi della malattia, dove si abbandonò per sempre alla pace che in tutti i suoi giorni aveva cercato quale calice prelibato. Era di qui dunque che cominciava la vena della follia della casata: folli, del resto, erano chiamati gli abitanti di Lhaus da quelli delle contrade circonvicine e in particolare dai paesani di Bithia, mentre vastissima era la letteratura sarcastica che si tramandava a disdoro di quelli. La follia entrò nel cuore della casa, si insediò nei gangli della famiglia che viveva, come tutte, in semplicità e ne fu colpita la rosa maggiore, Josepha, la quale dapprima cominciò col vagare tra le strade del Borgo, simile a puledra selvaggia, smemorata di sé e degli altri, poi tra i viottoli che portavano in campagna, i solatìi vigneti, le sperdute lande desertiche dove andava cercando i calzoni di ogni uomo che passasse, finché qualcuno non la riportava come invasata dalla madre. Danzava talvolta, nello slargo del vicinato, agitando lo scialle, gettando il fazzoletto con un gran gesto della mano, aprendo la blusa a mostrare i lattei seni mai toccati dalla luce, scuotendo le sottane, sollevandole fino alla cintola, sino a che le compagne, dapprima allegre e divertite di tanto spettacolo, quindi scandalizzate, e infine irate contro la sua improntitudine, non la spingevano in casa, afferrandola per le spalle, per i polsi, per i capelli: ella allora, dimostrando una forza insospettabile, quasi mascolina, si dibatteva simile a una tigre, mordendo, scalciando, puntando i piedi sulla soglia di basalto della povera dimora. La madre, le mani alle tempie, si batteva il volto, si strappava le chiome, la bocca serrata per non urlare; pallida come un cencio, si riprendeva tra le braccia quella figlia insensata, cullandola quasi fosse ridiventata bambina e piangendola come fosse morta. Le crisi che la coglievano si fecero col tempo sempre più frequenti, suscitando immenso dolore in tutti i suoi, che se ne stavano muti e impotenti di fronte all’esplosione di quella passione frenetica, la quale sembrava provenire dagli dei, aspro castigo, fino a quando fu allontanata per sempre dalle amate stanze della casa paterna, e chiusa in un luogo di eterno lutto. Era da lei, dunque, sapeva ora la Discendente più estrema, era da lei che procedeva la linea della follia, l’insania degli dei: era da lei dunque che si era trasmessa anche al remoto pronipote che fin da bambino sembrò appartenere al mondo parallelo degli dei nascosti o delle ombre misteriose, tanto erano stranieri i suoi giochi, modi e sguardi, parole ed atti; lunghissimi sonni silenziosi, mutismo prolungato, rare domande inaudite, e poi ogni tanto quel precipitare tacito e lento verso il basso, lo smarrirsi della mente e di ogni senso in un obnubilamento silente; era la manifestazione più evidente del “piccolo male”, quello stesso che si diceva colpisse Alessandro, il grande Macedone, e Giulio Cesare, e altri sublimi. Scivolava allora il bellissimo fanciullo, quasi demente, per brevi istanti, verso il pavimento, le membra contratte e immobili, gli occhi socchiusi, dimentico di sé e di ogni altra cosa, con un enigmatico sorriso sulle labbra: segno di insania o di ironia perché faceva a tutti uno scherzo sovrano? Fu quello stesso che scomparve giovanissimo, pressoché ancora fanciullo per come parlava, ragionava o sentiva, quasi avesse ereditato anche la fragilità o la sfortunata sorte degli avi, travolto inoltre da una morte crudele, come accadde al Prozio di ritorno dalla Terra Argentata, o al Nonno, tra i tralci della vigna. Un fine drammatica sembrava fare corte intorno ai rampolli della famiglia, come era avvenuto per i rami più annosi; lo stesso odio d’altronde li divideva, la stessa rabbia li possedeva, la stessa tabe li infestava, l’amara follia. Quelle donne che sembravano obbedire ad ogni influsso astrale, ad ogni soffio dell’ alito dei morti che si facesse sentire uscendo da un armadio, da una stanza o da una tromba di scale, erano pronte ad espiare la vita - non di altro si trattava - sacrificando se stesse su un altare immaginario, tributando agli dei sconosciuti, eppure presenti, omaggi infiniti. Così, la terza sorella, Nina, per la quale sembrò aprirsi un futuro fiorito nella grazia di un innamoramento, promessa sposa di un giovane bennato, egualmente fu colpita dal coltello della casualità inesplicabile, ottenebrata la mente dallo strazio di una nuova morte: quel giovane che avrebbe dovuto condurla a nozze, all’improvviso perì, toccato nei visceri da ignoto morbo. Il matto del Villaggio che dipanava il gomitolo dei vicoli, traendone ogni cascame, per primo diede la notizia alla fanciulla, irridendo quasi fosse lieta novella, ed ella, udite le atroci parole, afferrata la treccia fluente che ornava gli omeri delicati, se la strappò dalla radice con tutta la forza della sua disperazione. Non tardò, del resto, a scendere anch’essa le scale del sepolcro, dilaniata da quel folle dolore, che coglie chi è privato di un unico bene, ancora giovane e svelta nei suoi anni recenti. Solo dunque rimase quell’unico figlio maschio, simile a Giovanni accanto a Maria ai piedi della croce, virgulto superstite di tanta amara pianta, estremo sostegno della triste madre, del disgraziato padre, ma l’insaziabile vento della morte dovette ancora soffiare a disperdere quella fanciulla che aveva avuto “mani d’oro”, a coprire i suoi occhi lucenti di terra e polvere, a scuotere un’ultima volta le sue vesti innocenti. Così, si aggirarono nella casa deserta padre e figlio, nei mesti mattini invernali dal bianco albore di ghiaccio, nelle tiepide sere d’estate al canto iracondo dei grilli, preparando un amaro pasto nel rintrono del silenzio, trascorrendo insonni notti al latrato dei cani, quando innumerevoli stirpi di pensieri si addensano nella mente, annuvolandola di orrore. La vita continuò per qualche tempo nella solerte cura delle miti agnelle, degli indocili capretti: si smacchiava il bosco, si rialzavano muricce, si aggiogava il paio dei buoi, aratura e seminatura, seminatura e aratura si alternavano ad ogni inizio della stagione autunnale, a settembre, che, secondo l’uso biblico, era chiamato “Caput anni”, “Capodanno”, ma ciascuna cosa avveniva nel segno del silenzio, tra le palpebre socchiuse a tanta clamorosa luce, mentre i dolorosi lacerti di quello che erano state la sposa, la madre, e le figlie, le sorelle, si affacciavano vividi e incantati alla memoria, a schiantare la piana desolata dei giorni. Ogni giorno, il cristallo dell’alba si spezzava, frantumandosi in mille smerigliate schegge al suono del bronzo cupo e pesante delle campane di San Giorgio, il soldato elmuto effigiato nei diaspri dell’anello di fidanzamento, e tuttavia splendeva in molteplici echi, quasi trilli e richiami argentei e dorati, annuncianti l’avvento del dì. In fondo al Villaggio, altre campane rispondevano, quelle del lontano Convento dei Cappuccini e di cento altre chiese. Ma i due pastori, padre e figlio, come tutti gli altri, non avevano certo aspettato che le squille suonassero: stavano già nella valle, sia che fosse innevata, sia che venisse dardeggiata da una pioggia di fuoco, sotto le frecce d’agosto, mentre l’aurora aveva accompagnato soltanto i passi delle donne alla fontana, a prendere la prima acqua, quella per il primo caffè, i frettolosi lavacri. Il crepuscolo estivo era allora un balsamo dopo una notte di pena, nel caldo atroce del colmo agosto. In inverno, invece, un coltello di ferro tagliava la pelle di chi si avventurava per le strade ghiacciate, bianche di gelo e persino i cani se ne stavano nascosti nei più profondi recessi. Ma i pastori, che nulla temevano se non la fame e la miseria, erano già usciti, chi a piedi, chi su un asino paziente e mite, che essi amavano e che li amava come se sentissero quanta affezione fosse loro dedicata; a un bivio della strada, sull’Altopiano, o nella vallata, lasciavano la comunale e si addentravano negli elceti, malinconici e soprappensiero, verso i pascoli, le sorgenti, i chiusi delle candide greggi. Le donne invece, rimaste al Paese, ma non più quelle del padre, del figlio, accendevano il fuoco del camino, attendendo, poiché il loro tempo era l’attesa, null’altro. A quei mesti tempi, il cibo era scarso, le suppellettili misere, gli arredi estremamente poveri, gli abiti semplici; persino i sentimenti si amministravano con parsimonia spasmodica, quasi dovessero, se effusi, esaurirsi, come il sale, come il miele, oppure l’olio, il pane ed il cacio, elementi fondamentali dell’esistere, quasi sacri, e come tali da non sprecare. La vita dei due superstiti, dunque, in quello sperduto villaggio si svolse per qualche tempo ancora tale e quale a quella delle api, ma senza più il miele delle donne. Venuto a trovarsi dunque solo e ormai grande quell’unico erede, e considerato quasi ricco, avendo molta terra e bestiame, un giorno un confinante, certo Moccio, rivolgendosi al padre di quel figliolo rimasto senza madre, gli disse: “E che aspetti a farlo coniugare? Se vuoi che prenda una donna, vanne a casa dei Magnus, che ne è piena!”. Dopo qualche tempo, in risposta: “E sì, che ci sono andato, fulmini di fuoco, ce n’è un’intera conigliera! Ma quanti ne ha fatte, di figlie, la moglie di Magnus, non ha avuto certo la fica marcia!”. Tuttavia, nonostante l’aspro sarcasmo, il figlio condusse subito sposa una di quelle giovani della schiatta dei Magnus, la quale, presto divenuta madre, avrebbe allietato di molti discendenti la sua casa, portando calore e vita nella dimora devastata dal ricordo delle molteplici morti recenti. Poiché una certa tenerezza, contrapposta ai rigidi costumi tribali, aveva invece animato la stirpe materna, di cui appunto Magnus era il nome, a significare l’altezza della persona dei suoi appartenenti. Presto donne più liete avrebbero popolato la dimora, arricchito di risa e grida i giorni cupi dell’interminabile inverno barbaricino, ravvivato di mille faccende e astrusi conversari lo spazio smorto delle stanze: vi si sarebbero svolte infatti cento occupazioni, e tutte sarebbero apparse festose, piene di una sotterranea allegria, di una perpetua ilarità pronta ad esplodere ad ogni istante, tranne poi a smembrarsi se la piccola, pallida madre stesse male. Quella stessa madre presiedeva ad ogni compito domestico, considerato quasi ufficio sacro, alla cottura del pane, fatica immane che richiedeva ore e ore, addirittura dì e notti di lavoro incessante, con l’ausilio delle “cochitores”, le povere aiutanti che vivevano di quello, che campavano ripagate dal pane stesso che contribuivano a preparare; alla manipolazione della pasta per i maccheroni o gli svariati dolci; alla conservazione dei cibi più diversi, i fichi, l’uva, le mandorle, le noci, infiniti frutti e legumi da serbare per la cattiva stagione. Quella stessa madre sarebbe poi morta a causa dell’incuria di un falso medico che non seppe o non volle riconoscere nelle sue viscere la cancrena della peritonite. Non per questo una delle sue estreme discendenti si trattenne dal frequentare l’erede dell’inetto medicastro, i cui nipoti fecero ascrivere sulla lapide mortuaria, a lor maggiore vergogna, “medico degli inguaribili”, suscitando segreto scherno e ira in chi conosceva la verità. Ogni rancore, pertanto, sembrò svanire, ogni vendetta dileguarsi come fumo. Non era stato forse dimenticato e come rimosso del tutto anche il “peccato originario” di quel debito contratto a danno dei parenti poveri dai parenti ricchi, e mai più risarcito? L’oblio parve dunque cadere sopra ogni cosa, e ricoprire con uno strato di sterco ogni memoria. (continua)

1 commento:

Francesca Farina ha detto...

E' TROPPO LUNGO E DIFFICILE DA LEGGERE??? MI DISPIACE, E' SOLO PER CHI E' DAVVERO INTERESSATO ALLA VERA LETTERATURA...